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DONNA BIANCA, BIANCA CURIOSA

Scrivi, scrivi, scrivi… queste sono le parole che adesso risuonano nella mia testa, sono un coro di voci delle persone a me care oppure conoscenti che mi stimano e credono nella mia abilità. Sto facendo colazione, in sottofondo la melodia che suonavo alla mia amata e pelosa Virgi durante le esercitazioni al pianoforte. Dio, quanti pensieri nella testa! Sto pensando di regalarmi una giornata sulla spiaggia per farmi coccolare dal sole, una persona che neanche conosco personalmente – in questo preciso momento si trova in missione in Africa – mi ha augurato il buongiorno, dopo avere lasciato un like a una sua fotografia che lo ritrae con una bambina africana, lei lo abbraccia con tanto amore negli occhi e gli sorride. Voci, sole, Africa, pianoforte, musica, è tutto così bello quanto confusionario, ed è proprio questo groviglio di emozioni che mi sta velocemente facendo battere le dita sulla tastiera per il timore di dimenticare un ricordo che ha appena bussato alla mia mente, un evento della scorsa settimana. Brevemente, vi racconto di cinque ragazze africane con cui ho condiviso sedici ore. Brevemente poiché breve è stato il nostro incontro e poche sono state le parole comprese. Sono stata la loro insegnante per due giorni. Non le ho dimenticate, tutti i giorni penso a loro e a quanto dovrei imparare da queste giovani donne che per il loro vissuto dimostrano molto di più della loro età. 

 

Bianca non è il mio nome, è il colore della mia pelle. In fondo è solo questo che ci diversifica, a parte la loro riservatezza che contrasta il mio desiderio di conoscenza. Sono una donna bianca curiosa. Io sono così, ma la mia curiosità non è mossa dal desiderio del pettegolezzo, io ho fame di conoscenza, e nel caso specifico mi sono chiesta il motivo che ha spinto queste donne africane a lasciare l’Africa per vivere come gli italiani. Alla mia domanda “mi capite?” tutte hanno risposto di sì, ma vi assicuro che era un no travestito da sì. Partiamo da un concetto: costrette a partecipare a un corso di formazione capendo pochissimo la lingua italiana, non è stato offerto un docente di lingua inglese o francese (la loro seconda lingua), ciò che invece spetterebbe loro per legge. Sono accondiscendenti, anche troppo, e hanno una grande paura di esprime il loro parere, anche se dentro hanno un fiume di parole la cui forte corrente sembra volere straripare dai loro argini, ma viene trattenuto perché così hanno insegnato loro. Resistenza.  Sono donne, grandi lavoratrici che hanno lasciato il loro paese per due motivi: in Africa le cure per la salute “non sono buone” e “lo stipendio è troppo basso per mantenere la famiglia”. È stato difficile comprendere e approfondire questi concetti ma credo che, anche se espressi con parole povere, voi siate capaci di non rimanere indifferenti allo sfruttamento che si cela dietro. “Noi siamo qui, e tanti bianchi sono in Africa, anche gli italiani”. Capito?
Per quale motivo hanno scelto l’Italia e non un altro paese? Per le cure della salute. Vi sembra un concetto povero?
Le loro famiglie sono numerose, agli uomini piacciono tanti figli; per questo motivo alcuni di loro hanno più mogli, e sempre per questo motivo le donne non assumono la pillola anticoncezionale “Pill”, ma questo solamente in alcuni paesi.
Ho chiesto loro perché la donna africana si unisce in matrimonio a un uomo già sposato, io al posto loro sceglierei di non farlo! Hanno sorriso. In Africa la donna viene scelta dall’uomo e quasi sempre viene costretta a sposarsi dalla famiglia. Ma non in tutti i paesi africani esiste questa condizione, la legge non permette la bigamia ovunque.
In Africa ci sono molti bianchi, ma guadagnano di più e camminano molto meno degli africani. Tanti chilometri a piedi per raggiungere il posto di lavoro, anche tre ore. Le donne cuciono, lavorano al mercato, coltivano, in Africa. In Italia lavorano nelle fabbriche.
Pochi concetti che sembrano uscire da un cilindro senza un ordine, così è stata tutta la nostra “conversazione”. Nonostante la povertà della lingua italiana, si stanno preparando ad affrontare un lavoro duro. Ma non sono spaventate né dalla difficoltà della lingua né dalla fatica che le attenderà, il loro pensiero ricorrente è “quando ci chiameranno per lavorare?”.
Non so ripetere ne tantomeno scrivere i loro nomi, che a volte sono un solo elenco di consonanti, ma le potete guardare in volto e augurare loro “buona vita, donne!”.
Prima di salutarci, hanno voluto farsi un servizio fotografico con me trattandomi come una celebrità, per me è stata sufficiente una sola fotografia. Bianca, bella e gentile. Sono stata questo per loro e pareva strano.

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