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VITTORIA MIA, MIA VITTORIA

Questa è una storia capovolta, inizia dalla fine e termina con l’inizio per comprendere che le cose belle della vita non sono le nostre certezze. Le cose belle della vita sono i nostri cambiamenti.

Martina, spensierata e fiera dei suoi diciotto anni, sfreccia felice per le vie di Firenze con la sua Fiat 500 blu e un barboncino marrone seduto a fianco. L’auto e un cane, due traguardi. In realtà il vero traguardo non è stato l’acquisto del barboncino di nome Vittoria, bensì il superamento della paura dei cani. Martina ne aveva avuto il terrore e mai era riuscita ad avvicinarsi a un cane, anche a quello più docile del mondo. Tuttavia, nel momento peggiore della vita, quando la felicità le era stata strappata dal tempo e il suo sorriso era diventato un ricordo, un cucciolo di cane si era trasformato nell’unica speranza cui aggrapparsi per uscire dal tunnel dell’anoressia. Anoressia Nervosa, una patologia che l’aveva trasformata nel suo indiscutibile opposto.
Prima un leggero tocco, poi una carezza, poi un’altra e un’altra ancora fino ad accorgersi che sorprendentemente stava tenendo in braccio un cane vero e non uno di quei peluche che adornavano la sua cameretta.
Il pensiero di vincere la malattia per portare quel cucciolo a casa – una promessa dei genitori, al suo miglioramento avrebbero acquistato quel cane e ogni loro promessa era sempre stata onorata – era la spinta per combattere contro la fobia del cibo e la voce cattiva che risiedeva nella sua testa. Ma quel desiderio non aveva abbastanza forza per combattere da solo.
Martina non si rendeva conto del suo stato reale, le interessava solamente constatare di avere il controllo sul peso, e l’aiuto della madre – che l’abbandonava solo per il tempo in cui non si poteva assentare dal lavoro – non era altro che un leggero sfregamento di una piuma sulla pelle. La madre, una donna stanca ma inarrestabile, dormiva con Martina in ospedale, si svegliavano e giocavano insieme, e, come se non fosse già abbastanza, doveva vigilarla affinché non si ostinasse nel percorrere il corridoio affollato di gazzelle in fuga; l’unico momento in cui avrebbe potuto prendere una boccata d’aria era l’ora del pasti perché a controllare sua figlia ci pensavano altri, tuttavia rimaneva seduta nel corridoio speranzosa di incrociare sguardi o parole di incoraggiamento dei medici che purtroppo non arrivavano.
La malattia continuava a essere la sua ombra, e i piccoli miglioramenti ottenuti in ospedale mediante la nutrizione con il sondino naso gastrico furono spazzati via dopo l’eliminazione dello stesso. La situazione peggiorava e quel percorso non era un aiuto, anzi, il suo disagio aumentava di pari passo ai suoi silenzi. Ma la caparbietà dei genitori non si arrestava: anche se disperati, continuavano a marciare compatti verso la vittoria.
Il tempo era avanzato veloce, di pari passo a piccoli incidenti — le tensioni lavorative dei genitori, un’ingiustificata umiliazione subita a scuola, incomprensioni nell’ambito sportivo — che si erano accumulati nella nuvola grigia che vedeva seguirla ovunque. Il cielo era divenuto sempre più cupo e lo stesso il suo umore. Gli altri e ogni situazione in cui si trovava erano i nemici da cui difendersi; per questo motivo, oltre ad abbandonare l’ambiente del basket, arrivò anche la decisione di ritirarsi definitivamente dalla scuola superiore che aveva da poco iniziato a frequentare. La paura dell’esito negativo delle interrogazioni, che avrebbero potuto metterla a disagio davanti ai professori e compagni, e il sentirsi diversa dalle amiche di scuola, che avvertivano la necessità di esibire il proprio corpo e futili discorsi, erano gli avversari contro i quali non era riuscita a combattere. Sconfinavano dal recinto che lei stessa aveva tracciato e in cui dovevano sostare solo le proprie certezze. Situazioni e persone su cui poteva esercitare il proprio autocontrollo. Martina era stata trasformata nella fedele serva di una voce che si era impadronita di lei cancellando dal suo dizionario mentale tutto tranne alcuni termini che rimbalzavano da un neurone all’altro, seguendo un percorso preciso e rigido tanto da non lasciare spazio per entrarvi. Dimagrire, ingrassare, peso, calorie, misure, bilancia. Con quei pochi termini era riuscita a comporre frasi diverse accomunate dal solo ordine del divieto. Divieto di finire il pasto, divieto di bere, divieto di mangiare, divieto di stare ferma… “perché sei grassa”. Quella voce spietata aveva urlato tanto da convincerla che ciò che stava udendo non era altro che la verità.
Tredicenne, Martina si era trovata a fare i conti con la parola autostima. La considerazione di sé era un concetto che mai l’aveva sfiorata e vi si era scontrata proprio quando venne a mancare colui che l’aveva da sempre fatta sentire una principessa perfetta nel suo regno incantato. Il nonno. Il disagio era iniziato a crescere nel cuore – probabilmente scaturito dal sentirsi appiccicata la sporcizia della timidezza e della fragilità che la portavano spesso a farsi scudo del proprio nucleo familiare – si era propagato e poi tramutato in un’ossessione, e infine trovato certezza nell’offuscamento degli occhi che non erano più capaci di delineare il contorno preciso della realtà. A qualsiasi impulso esterno era capace di esibire un solo sorriso che non celava altro che l’arrovellamento emotivo scaturito anche da una banale e scherzosa provocazione.
C’era una volta una bambina di nome Martina, un’anima chiacchierona ma con una lieve sfumatura di riservatezza percepibile alla sola presenza di persone estranee. Esprimeva la sua dolcezza con la profondità dello sguardo e con il sorriso irradiato dal calore della sua anima. Era la secondogenita di semplici ed onesti lavoratori che non avevano mai messo in discussione il valore della propria famiglia, nemmeno nel periodo più buio della loro vita. Martina e la sorella avevano sempre potuto contare sulla loro presenza, nonché sull’amore dei nonni, nella difficoltà e nella gioia assaporando il gusto dell’incoraggiamento, della correzione, dell’aiuto e dell’amore.

Vi starete chiedendo chi Martina abbia ringraziato per essere uscita dal tunnel dell’anoressia nervosa. Dio, certamente, ma non solo. Prima di tutto se stessa, poiché non hai mai smesso di combattere, secondo, l’amore smisurato della famiglia, e infine… ve lo dirà lei stessa.

Martina, partiamo dal motivare la decisione di raccontare la tua storia di anoressia.
Non ho mai parlato della mia malattia con nessuno, nemmeno con i miei genitori perché non volevo fare rivivere loro quei momenti drammatici. Eppure ne avvertivo il bisogno, come se avessi dovuto togliere un peso dal cuore. Spero d’essere di aiuto a chi ancora non ha compreso che si tratta davvero di una malattia e a coloro che la stanno subendo. A quest’ultimi voglio dire che il vero avversario da sfidare è la voce che sentite dentro la vostra testa.

Com’è iniziata la malattia?
Ancora non lo so. I miei ricordi difficilmente hanno un ordine, proprio perché l’ordine non era nella mia mente. Sono successi fatti e ho avuto pensieri ai quali ancora oggi non so motivare.

Qual è il ricordo più vivo dell’esordio?
Alle scuole medie ho iniziato a sentirmi poco accettata dai compagni. Trovavo difficoltà a entrare in un gruppo. Mi ero talmente chiusa a qualsiasi rapporto sociale che mi prendevano in giro. Ogni mattina prima di uscire di casa piangevo sempre per lo stesso pensiero di andare a scuola e non chiacchierare con nessuno. Le compagne di classe mi sembravano più forti e appariscenti e, anche se alcune erano più in carne di me, io mi vedevo peggio.

Qual è stata la soluzione messa in atto per vederti come le tue coetanee?
Perdere qualche chilo. Modificare il mio corpo mi avrebbe fatto sentire più vicina a loro. Una soluzione che poi mi ha fatto molto male perché i chili persi non erano mai abbastanza.

Hai consultato il pediatra per il dimagrimento?
No. Mi sono creata un programma alimentare da sola cercando le calorie degli alimenti sul web. Seguivo le pagine Pinterest e Instagram di ragazze anoressiche, o di persone che erano uscite dall’anoressia e pubblicavano le fotografie dei loro pasti che rispecchiavano comunque una dieta rigida. Mostravano anche le foto del loro corpo, il prima e il dopo; io ammiravo il prima e pensavo “vorrei essere così”.

Hai eliminato degli alimenti dalla dieta?
Pane, pasta e olio. A cena cucinavo io per tutti per tenere sotto controllo le calorie, non aggiungevo mai l’olio.

Come avresti voluto apparire?
Magra, uno stecchino. Trasparente. Non so a cosa avesse potuto servirmi essere in quel modo. Ripensandoci adesso, forse desideravo essere al centro dell’attenzione oppure scomparire per evitare i problemi e i brutti pensieri.

La tua famiglia ti ha fatto notare la rigidità della tua dieta?
Si sono preoccupati subito. La mamma mi ha portato dalla pediatra affinché mi spiegasse che non avevo bisogno di dimagrire e per avere dei consigli alimentari. Però la pediatra le disse che non c’era da preoccuparsi. Non ci fornì nessuna indicazione e chiese di rivedermi dopo un mese, era il periodo delle vacanze estive. Lo ricordo come se fosse accaduto ieri, e adesso le sue parole “falle mangiare quello che si sente” mi sembrano davvero assurde.

Sei poi tornata al controllo dalla pediatra?
Sì. Ero dimagrita sei chili in tre settimane. Quella vacanza è stata un incubo per tutti noi, non volevo mangiare niente e la mamma mi ha riportato dalla pediatra prima del previsto. Mi ha inviata subito al pronto soccorso per disturbo del comportamento alimentare.

Nessuno dei conoscenti ha immaginato che tu potessi essere anoressica?
Durante le superiori, quando la perdita di peso ha iniziato a essere evidente, le compagne si sono accorte subito che qualcosa non andava. Mi chiedevano di accompagnarle al bar per acquistare la merenda ma io inventavo sempre una scusa per non mangiare, persino che stavo facendo degli accertamenti per la celiaca perché al bar non vendevano alimenti per celiaci.

Quando ti facevano notare di essere dimagrita, come reagivi?
Ero contenta. Inizialmente mi dicevano anche che stavo bene e sembravo una modella; in quei momenti pensavo che avrei dovuto dimagrire ancora per sembrare migliore, più di quello che già apparivo.

Avevi delle ossessioni?
Ho iniziato con il riordino del mio armadio suddividendo gli abiti per colore, quasi tutti i giorni. Ero ossessionata dalla ricerca di un posto in cui specchiarmi, misurare qualsiasi parte del corpo con le mani e dal costante e assiduo movimento. Dopo i pasti, quando i miei genitori mi avevano vietato di uscire, salivo e scendevo un gradino nella mia camera fino allo sfinimento.

Hai raccontato che durante la malattia sentivi una voce tormentosa nella testa. Ricordi cosa suggeriva?
“Sei grassa. Non mangiare questo perché non te lo puoi permettere, guarda che cosce che hai” – è stato da quel momento che ho iniziato a misurarle con le dita – sentivo che non dovevo darle ascolto però era troppo più forte di me e mi spaventava. Si ripeteva talmente tante volte che arrivavo ad autoconvincermi.

 

Sei passata attraverso tre percorsi terapeutici, il day hospital, il ricovero ospedaliero e le visite ambulatoriali. Ogni volta hai dovuto ripartire con terapisti diversi. Qual è stato l’operatore sanitario che più temevi?
Sicuramente la dietista. Con il neuropsichiatra non parlavo, e ancora meno con lo psicologo. Durante la visita con la dietista la bilancia parlava per me ed era l’unica che non potevo fregare. Potevo raccontare di avere mangiato tutto il pasto o bevuto l’intero integratore calorico, ma se non era vero lei se ne accorgeva subito. Anche durante i pasti assistiti, in cui eravamo vigilate a vista, la dietista era l’unica che non riuscivamo a ingannare, mentre invece impietosivamo infermieri e operatori socio sanitari.

 

Ogni percorso ha avuto la sua importanza, ma nel tuo caso il percorso ambulatoriale è stato vincente.
Sì. Sono stata inviata al distretto ambulatoriale perché la salute peggiorava e miei genitori hanno deciso di chiedere le dimissioni. Le mie condizioni erano davvero critiche. Dapprima ho incontrato la neuropsichiatra, una persona gentile ed empatica, e dopo due settimane la dietista. Non volevo incontrare la dietista però la neuropsichiatra mi garantì che sarebbe stato diverso dalle altre volte. E così è stato. Mi ha spiegato il funzionamento del corpo, mi ha misurata e non ha consegnato la dieta. Ha terminato la visita chiedendomi se avessi voluto tornare.

Qual è stata la tua decisione?
Sono tornata e abbiamo iniziato a lavorare sul programma alimentare. Lei era diversa da quelle incontrate precedentemente: trasmetteva tranquillità, non giudicava e mi trattava come una persona normale. Parlavamo di tutto, ridevamo, e soprattutto mi ascoltava. Per lei non ero un “caso” ma una persona. Mi ha aiutata a riassumere il cibo, in quel periodo mi nutrivo solo con gli integratori calorici, a riassaporare gli alimenti e a smettere di utilizzare la bilancia pesa alimenti.

Quando sei riuscita a terminare il tuo primo pasto completo, come ti sei sentita?
Mi sono detta “sei stata brava” ma la voce che sentivo contrastava dicendo “cosa hai fatto? non lo dovevi fare”.

Cosa hai fatto in quel momento?
Ho provato a non darle retta e ho letto l’elenco dei pensieri positivi che avevo creato insieme alla dietista; spesso mi tranquillizzavo, ma se non accadeva provavo a telefonarle. Lei mi incoraggiava e ci riuscivo. Mi ha insegnato a diventare combattiva.

Quanto è stata importante la presenza costante della tua famiglia?
La mamma, con la sua fede, è stata il punto di riferimento. Non le chiedevo niente ma in sua assenza la mia battaglia sarebbe stata certamente più dura. In quei momenti pensavo di non avere bisogno di nessuno. Nella debolezza mi sentivo forte.

Per la guarigione il tuo cane ha avuto un ruolo fondamentale.
Vittoria ha riacceso la voglia di vivere. Ho sempre avuto terrore dei cani ma durante il day hospital, grazie alla pet terapy, sono riuscita ad affrontare quella paura giocando con i cani e facendogli fare degli esercizi. In quel periodo ho conosciuto la signora che possedeva il cucciolo di barboncino di cui mi sono innamorata a prima vista. Quando Vittoria è arrivata nella nostra famiglia la stringevo a me durante i pasti, mi dava forza.

Qual è stato il momento che ti ha aiutato a capire la gravità del tuo stato fisico?
Per fortuna ero a casa. Mi sono sentita troppo debole, sudata ma avvertivo tanto freddo, ho vomitato spontaneamente e il viso era verde. Mi hanno portata subito al pronto soccorso dove è stato diagnosticato un brutto episodio di ipoglicemia. Ne ho avuto molti durante la malattia ma quello è stato in assoluto il peggiore e l’unica volta in cui ho avuto tanta paura. Ricordo di essermi chiesta se stessi morendo.

Cosa pensi che ti abbia insegnato la malattia?
Sicuramente a mentire, non l’avevo mai fatto prima. Ricordo che ai miei genitori raccontavo di avere mangiato a scuola un panino farcito di maionese e prosciutto per non pranzare a casa, oppure di avere dolore alla pancia. Ho imparato ad apprezzare la vita e l’amore delle persone che mi circondano. Adesso che ho vinto la mia battaglia vi posso assicurare che non conta il corpo. Non è importante come siamo ma è solo una questione di carattere. Forse, allora ero troppo timida per stare al passo dei miei coetanei, ma è possibile superare la timidezza senza farsi del male.

Adesso senti di essere cambiata oppure ti riconosci ancora nella Martina tredicenne?
Sono più matura. Mentre prima c’era solo il buio davanti ai miei occhi, adesso vedo una strada da percorrere. Durante la malattia pensavo solo alle misure del mio corpo, ora questo ha la sola importanza di funzionare da corpo. E se guardandomi allo specchio non dovessi vedermi bene con un pantalone, lo cambierei senza avere pensieri distorti e mi ripeterei che può capitare a chiunque.

Martina